Nuova era L’idrogeno a basse emissioni nella diplomazia climatica e l’eredità della Cop28

Lontano dai riflettori dei media, questo “gas pulito” è stato un pilastro importante all’interno delle trattative di Dubai: «La sua comparsa nel testo finale è estremamente rilevante. E le imprese italiane sono pronte a investire in questa direzione», racconta Andrea Catino di VIBEA

La transizione ecologica è come una ricetta di cucina: ci sono tanti ingredienti da dosare nella maniera corretta, alcuni sono quantitativamente più importanti di altri ma tutti, nessuno escluso, sono fondamentali per raggiungere il livello perfetto di dolcezza o sapidità. La lista completa era già conosciuta, ma è stata ribadita recentemente da un documento Onu del calibro del Global stocktake (Gst), ossia il bilancio sui progressi fatti finora e gli sforzi da compiere in futuro per contrastare la crisi climatica.

Stando al punto “e” dell’articolo 28 del documento, pubblicato alla fine della Cop28 di Dubai, il «transitioning away» dalle fonti fossili (gas, petrolio, carbone) deve basarsi sui seguenti “ingredienti”: energie rinnovabili (da triplicare entro il 2030), efficienza energetica (da raddoppiare entro il 2030), nucleare, sistemi di cattura e stoccaggio della CO2 e – ultimo ma non meno importante – l’idrogeno «low carbon». Quest’ultimo è e resterà un tassello rilevante per decarbonizzare i settori dell’energia e dei trasporti (anche a livello locale, come ha spiegato in questa intervista l’assessora milanese alla Mobilità Arianna Censi).

La sua posizione finale nell’elenco pubblicato sul Global Stocktake non testimonia una minor rilevanza rispetto ad altre tecnologie. Secondo l’ingegnere meccanico Andrea Catino, direttore business development della società di consulenza energetica VIBEA, «la comparsa dell’idrogeno a basse emissioni in un documento di tale importanza rappresenta un dato estremamente rilevante. L’idrogeno è un gas che, se prodotto da fonti rinnovabili o con sistemi di cattura della CO2, potrà contribuire in maniera decisa alla riduzione dell’utilizzo di combustibili fossili, soprattutto nei contesti industriali di difficile decarbonizzazione (hard to abate), come le raffinerie, le acciaierie, i cementifici o le vetrerie».

Inoltre, aggiunge l’esperto, «la proprietà di questo gas di fungere da vettore energetico suggerisce il suo imminente contributo nel processo di decarbonizzazione della mobilità, persino del trasporto marittimo e dell’aviazione». Ma cosa si intende per idrogeno a basse emissioni? La definizione non si rifà necessariamente a uno o più colori utilizzati – a volte in maniera impropria – per distinguere i vari tipi di idrogeno: «Per idrogeno low carbon si intende l’idrogeno prodotto tramite processi che emettono una quantità significativamente inferiore di anidride carbonica rispetto ai metodi tradizionali», ci spiega Catino, che ha partecipato di persona alla Cop28 di Dubai.

I tipi di idrogeno variano in base alla produzione e alla quantità di emissioni di gas climalteranti associate: «Quello blu viene prodotto con il reforming del metano a vapore o il contributo di fonti fossili, con contestuale cattura di CO2, a differenza dell’idrogeno grigio. Quello che convenzionalmente chiamiamo idrogeno verde, invece, deriva dall’elettrolisi dell’acqua utilizzando energia elettrica proveniente da fonti di energia rinnovabili. Quest’ultimo processo produttivo non emette in atmosfera gas serra. Nel corso della Cop28 è stato presentato il nuovo standard ISO/TS 19870 come base per l’armonizzazione, la sicurezza, l’interoperabilità e la sostenibilità lungo tutta la catena del valore dell’idrogeno», sottolinea l’ingegnere.

Al netto della (controversa) inclusione del nucleare e della cattura-stoccaggio della CO2 nella “cassetta degli attrezzi” per mitigare l’emergenza climatica, «la formalizzazione di nuovi standard – più rigorosi e volti a un aumento significativo dei requisiti di emissione – ha raccolto entusiasmo e supporto nel settore. Merito della reazione positiva di diverse imprese, dimostratesi pronte a investire in tale direzione (si pensi solo alla partnership firmata da Masdar e Iberdrola), ma anche della Mutual recognition of certification schemes for renewable and low-carbon hydrogen and hydrogen derivatives», dice Catino.

Quest’ultima è una dichiarazione di intenti, sottoscritta da trentasei Paesi, che punta a uniformare gli schemi di certificazione dell’idrogeno rinnovabile e a basse emissioni, nella speranza di creare un mercato che sia realmente globale. Tra gli Stati firmatari, sostiene l’esperto, i più proattivi durante il summit di Dubai sono stati «gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e l’Arabia Saudita, ma anche l’Australia, il Canada, gli Stati Uniti, il Giappone, la Francia, Germania, il Regno Unito e l’Italia».

Indipendentemente dalla spinta del governo, secondo Andrea Catino «alla Cop28 diverse aziende italiane hanno dimostrato di voler assumere un ruolo di rilievo in tale processo, come Saipem Spa, Turboden Spa, Eni Spa, NextChem MAIRE Group». Senza dimenticare poi l’esito del Green Hydrogen Summit Oman 2023, che si è tenuto pochi giorni dopo la conferenza sul clima delle Nazioni unite: «Qui l’Italia ha avuto un grande successo tra i numerosi progetti in corso nel Sultanato relativi all’idrogeno verde. Ci tengo a citare alcune aziende che sono intervenute proficuamente, a vario titolo: Energy Dome Spa, Walter Tosto Spa, Magaldi Green Energy Spa, Techint Spa, Tenaris Spa, H2 Energy Srl, Vibea Srl, PWC Italy Spa, TUV Italia Srl».

Nel nostro Paese, quindi, si sta diffondendo un certo fermento industriale e imprenditoriale per quanto riguarda l’idrogeno a basse emissioni, e alla Cop28 ne abbiamo avuto la conferma. Tuttavia, questo elemento appare raramente in cima alle pagine di siti e giornali italiani, anche durante eventi internazionali come quello di Dubai: «È un dato di fatto che i media italiani abbiano dato poca rilevanza all’idrogeno. La copertura è stata decisamente scarsa. Come ho detto, però, è stato un punto focale. Tra l’altro, l’insufficiente visibilità mediatica mi è sembrata una mossa poco strategica, soprattutto alla luce dell’impegno dimostrato dal nostro Paese in questa direzione», racconta Catino.

Qui l’esperto si riferisce anche alla dotazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per l’uso dell’idrogeno nei trasporti e nell’industria: parliamo di circa 3,6 miliardi di euro. «Negli ultimi tempi l’Italia sta cercando di ridurre la sua dipendenza dai combustibili fossili aumentando la quota di energie rinnovabili, una mossa che include l’interesse verso i biocarburanti, il biometano e, ovviamente, l’idrogeno. L’idea generale è quella di combinare l’idrogeno con l’anidride carbonica catturata per produrre metano sintetico o biometano. Si tratta di un combustibile innovativo che compensa le emissioni di anidride carbonica».

Le sfide future, insomma, sono tante e sfaccettate. Alcune risultano concrete e applicabili su larga scala, altre più acerbe. Una di queste è l’idrogeno bianco, anche chiamato “naturale”: «L’idrogeno bianco non è un termine standardizzato nel settore, ma lo si utilizza per fare riferimento al gas che si forma naturalmente nel sottosuolo in seguito a una reazione chimica che si ritiene provocata dal contratto tra l’acqua ed alcuni minerali. Durante la Cop28 il focus non è emerso per un semplice motivo: si tratta di un tipo di idrogeno molto raro. Fino ad ora, sono stati scoperti alcuni giacimenti, ma si è ancora lontani dalla svolta».

Essendo naturalmente disponibile, conclude Andrea Catino, «questo tipo di idrogeno risolverebbe a valle i problemi relativi alla produzione tramite processi ad alto consumo energetico. Tuttavia, bisognerà percorrere ancora molta strada per far fronte a eventuali dinamiche di estrazione – soprattutto per la sua alta infiammabilità – e ai relativi costi. La ricerca è ancora lunga. Io, però, ne sono sicuro: il cosiddetto idrogeno bianco potrebbe rappresentare non solo una nuova sfida per la transizione energetica ma, addirittura, una prossima possibile soluzione».